Testa tra i rami, piedi per terra





Testa tra i rami, piedi per terra 
Una conversazione con Matteo Meschiari su corpo, paesaggio e sostenibilità 

Paolo Mestriner: Leggendo Sistemi selvaggi, a macchie, così come ne hai concepito la struttura, mi ha colpito la densità di alcune parole che ritornano nel testo, e che mi sono segnato: «immagini originarie», «primitività dell’immagine», «oscillazione spaziale», «fisicità corporea», «paesaggi concreti», «spazialità originaria», «sguardo tattile»… Già da questo capisci che mi interessa molto il risvolto fisico del tuo testo, “situazionale”, come lo chiami tu, perché credo che oggi sia importante distanziarsi, distinguersi da questo momento storico che celebra il virtuale, ritrovare, nella fisicità, nella terra, le ragioni.


Matteo Meschiari: Sistemi selvaggi ha uno scopo ben preciso: passare da una teoria del paesaggio a una teoria-paesaggio, e dunque farla finita con le manipolazioni intellettuali ed estetizzanti della parola “paesaggio”, che la riducono a un’idea, a un sentire, a una metafora tuttofare ormai molto usurata. Non nego che il paesaggio sia un prodotto (anche) culturale, esiste però un aspetto del paesaggio che nasce dall’incontro tra corpo umano e corpo terrestre, ed è questo che mi interessa. Mi piace immaginare il paesaggio come la lenta migrazione geologica del mondo, con la materialità della pietra che sorregge il passo di un camminatore attento. Ritrovare nella terra le “ragioni”, come dici, è un lungo viaggio, che richiede buone mappe, ma anche buone scarpe.


P.M.: Guido Ceronetti usa questa espressione: «occuparsi dell’ambiente», e la sua parola diventa davvero “esperienza”. Nel tuo libro il fare esperienza, del corpo, dello spazio, del paesaggio, è una cosa fondamentale, primaria, ma cosa vuol dire per te «occuparsi dell’ambiente» in questo periodo in cui le parole “paesaggio”, “ambiente”, “sostenibilità” sono molto usate?


M.M.: Hai ragione a parlare di parole. Senza le parole “paesaggio”, “landscape” e tutte le metafore che hanno generato (mindscape, bodyscape, walkscape, ecc.) il paesaggio come lo intendiamo noi semplicemente non esisterebbe. Ho provato a spiegarlo nel libro: il paesaggio è immancabilmente un “discorso su”, per questo credo che tutti i discorsi su paesaggio, ambiente e sostenibilità dovrebbero tener conto del fatto che sono “discorsi su”. Ma su cosa? Quel “su” io lo leggo spazialmente, nel senso di stare concretamente “sopra” qualcosa di solido, la terra. E qui ritorna l’esperienza, il fare esperienza. Per me occuparsi dell’ambiente significa questo: che prima di metterci mano dovremmo metterci piede. E poi dovremmo parlarne a lungo, con chi ci sta da poco o da sempre, con chi è poeta, antropologo, artista, architetto, e solo allora, solo dopo, iniziare a “fare”. I problemi più gravi, con l’ambiente, sono provocati da chi non ci va di persona, da chi non cerca interlocutori e da chi ha troppa fretta di fare. Forse è arrivato il momento di percepire nella parola “sostenibile” l’idea di “sosta”.


P.M.: Questo modo di “stare su”, del “sostare su”, lo sperimenti già da molto tempo. Penso a Camminare paesaggi ma anche a Poetica del terreno e a Passo selvatico. Inoltre mi piace quando dici che il processo è importante quanto l’oggetto, è una cosa che sento molto mia, mi ricorda Beyus.


M.M.: Uso spesso la metafora del camminare perché per me non è una metafora. O, se lo è, ritrova comunque nel corpo che cammina la forza primaria che è in grado di svecchiarla. In un libro su Dino Campana, un vero poeta camminatore, ho insistito sul fatto che chi cammina pensa diversamente da chi non lo fa. E qui c’entra appunto il processo, perché non si tratta di andare a piedi da un punto A a un punto B, ma di considerare l’intero percorso come un unico gesto irripetibile, un significante in attesa di significato: si possono camminare alberi, ghiacciai scomparsi, amicizie, morti care, un quartiere che cambia, una stagione breve, un’idea. Parli di Beyus, e penso a Marina Abramovich che cammina con Hamish Fulton, o Claudia Losi che ricama a piedi la costa della Bretagna, ma penso soprattutto alle piste di un cacciatore-raccoglitore in un paesaggio del Pleistocene. C’è un’antropologia del camminare, da Homo erectus a Henry Thoreau, che deve ancora essere scritta. Rebecca Solnit o Franco Careri degli Stalker hanno sbirciato là fuori in chiave postmoderna, ma il postmoderno è finito, e per ascoltare con i piedi le crescite del paesaggio dobbiamo guadare a qualcosa di più permanente e fondamentale.


P.M.: Cosa vuoi dire?


M.M.: Credo che i paesaggi abbiano un “potenziale antropologico” che chiede di essere ascoltato. Non ha solo a che fare con la loro storia o preistoria, ma con quello che può ancora accadere, con la loro “destinazione”. C’è chi costruisce spazi per stare bene (soldi, narcisismo) e chi li costruisce per far stare bene. In questo caso bisogna saper molto ascoltare, e per il paesaggio è la stessa cosa. Come si può pensare di mettere mano a un paesaggio, addirittura di “architettarlo”, se non si ricollocano al centro i bisogni primari? Come si può così sistematicamente ignorare il bisogno che ha l’uomo di camminare? E non dico tracciare sentieri, marcare rocce e piantare cartelli ai bivi cercando l’itinerario più rapido o più estetico o più “ergonomico”, ma di immaginare piste il cui scopo sia quello di ripetere le nervature naturali dei terreni, le loro linee di tensione e dissipazione, le crescite delle loro macchie. Si parla molto di ricerca dell’essenziale, ma l’essenziale non è l’ennesima scelta formale. Ha invece a che fare con la “destinazione” primaria di uno spazio (che è anche) per l’uomo. Questa, credo, è la vera priorità della ricerca sostenibile. Il pannello solare viene dopo.


P.M.: Sono d’accordo. Ma torniamo a Sistemi selvaggi. Come coniughi la scrittura, in qualche modo contemplativa, al paesaggio e al tempo della percorrenza, all’esserci dentro, alla fisicità? Voglio dire che ciò che stupisce nel libro è questo trait d’union tra scrittura e spazio, come se la sinestesia non riguardasse solo la reazione del corpo nel paesaggio, ma anche qualcosa di importante come la parola, da Calvino a Campana, da Leonardo a White, uno strumento di interfaccia reale (A/R da scrittore a lettore) del paesaggio. O sbaglio?


M.M.: No, è proprio così. Italo Calvino parlava di «tradurre il paesaggio in ragionamento», Kenneth White cercava «l’equazione tra mindscape e landscape» e il sottotitolo del mio libro è Antropologia del paesaggio scritto. Il filo conduttore è il linguaggio, un wordscape, un paesaggio verbale, che è appunto l’interfaccia tra mente e mondo, tra spazio pensato e spazio concreto. Nelle mie ricerche antropologiche sono arrivato a sostenere che la mente dell’uomo è paesaggistica, cioè che nel corso dell’evoluzione è stata modellata a immagine e somiglianza dei paesaggi naturali. Per semplificare molto, le nostre strutture cognitive innate sono il risultato di una serie di pressioni ecologiche: per circa due milioni di anni l’uomo è stato un cacciatore-raccoglitore e il suo modo di pensare era naturalmente funzionale all’ecosistema. Nonostante il contesto sia radicalmente mutato, questo scambio di fluidi tra mente e ambiente resta attivo in noi. Ed ecco che interviene il linguaggio, come ponte tra i due mondi, ma anche come terreno di studio per l’antropologo: nel libro esamino appunto la percezione e la rappresentazione del paesaggio scritto (di poeti, di filosofi, di viaggiatori, ecc.) perché, al di là delle culture, delle personalità e delle epoche, il testo di paesaggio ci può svelare come Homo sapiens pensa lo spazio e la sua complessità. E questo, credo, non interessa solo l’antropologo, ma chiunque si accinga a progettare e a metter mano all’ambiente.


Aprile 2009

(in d’A – d’Architettura, cultura italiana del progetto – numero 38, Editore Il Sole 24 ORE Business Media srl – Milano)

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