Animalanima
di Matteo Meschiari

Avignone, 25 Place des Études. È qui che ha vissuto Pierre Boulle, l'autore de Il pianeta delle scimmie (1963). Ho abitato alcuni anni ad Avignone e non ne sapevo nulla. Non sapevo nemmeno che esisteva un romanzo e che il suo autore era francese. Poi mi sono ricordato che Vercors ha scritto nel 1952 Les animaux dénaturés e ho capito che i francesi, prima del cinema, hanno saputo dire la loro sull'antropopoiesi, pensando anche a un pubblico di non filosofi.



Il problema di cosa sia "umano" e di cosa sia "animale" rende questi testi di più di mezzo secolo fa un terreno da riesplorare, e per me soprattutto adesso, dopo che due settimane fa un attivista anticorrida è stato visto aggirarsi per Arles con un cartello con la scritta JE SUIS TORO. A dispetto della prima impressione comica (l'uomo era piuttosto mingherlino), la trovo un'icona perfetta del problema che mi sta a cuore: l'antispecismo e le sue contraddizioni. Vengo subito al dunque. Prima contraddizione: l'abbattimento di barriere tassonomiche, ontologiche, etiche e giuridiche tra uomo e animale richiede un atto volontaristico (o di coscienza) che solo l'animale umano può fare. Primus inter pares, l'uomo è il promotore, il supervisore, il guardiano e il sanzionatore del nuovo ordo universalis, in altri termini tutti gli animali sono uguali ma alcuni animali sono più uguali degli altri. Seconda contraddizione: la dialettica uomo vs animale è una costruzione ideologica e culturale, ma la dialettica antispecisti vs specisti è motivata, anche se ha assunto la fisionomia di un movimento culturale antagonista in cui ci sono animali e animali umani ravveduti da un lato, e animali umani che vivono nell'errore dall'altro. Si potrebbe obbiettare che il piano dialettico non è lo stesso, cioè che qui si rivendica uno statuto ontologico egualitario ma che per affermarlo occorre una lotta politica. Eppure è proprio in questo distinguo la contraddizione. Mentre i teorici scrivono libri, gli attivisti usano metafore eloquenti: gli animali sono gli "schiavi", le "vittime", i "deboli" e il pensiero empatico-emotivo fa sempre più leva sull'immaginario dell'incompletezza e della disabilità: animale come bambino, alienato, handicappato. Non sempre, certo. Nei mille rivoli del pensiero animalista c'è anche un'identificazione con l'animale forte, puro e perfetto. Il teorema nazista che innalzava gli animali per definire a fortiori i subumani è un fantasma mai del tutto fugato, ma l'animismo e l'ontologia prospettivista che attraversa tutto il pensiero antispecista sta già fondando le premesse di un'altra dialettica specista, quella che oppone l'animalità sana all'umanità malata. E solo i giusti si salveranno. Lasciando per il momento cadere le derive criptofasciste, l'antiumanismo giustizialista, il rancore di genere esteso alla specie (tratti ormai tangibili del pensiero e dell'azione antispecista), bisogna notare che la prima conseguenza politica dello stare (dialetticamente) dalla parte degli animali è quella di abdicare ai principi (troppo umani) del vivere sociale. Da un lato JE SUIS TORO significa che non accetto più le regole umane dunque le trasgredisco per una causa che, unilateralmente, decido essere superiore. Dall'altro significa che i tori ammazzati nelle corride e i giornalisti uccisi di Charlie Hebdo sono vittime comparabili. È inutile intervenire in seconda battuta per riscrivere il senso del testo: il messaggio mediatico è quello. Quello che passa e che si vuol far passare è che nel bagno di sangue si ha un livellamento ontologico. Stessa sofferenza, stessa perdita, stessa violenza e, possibilmente, stessa sanzione morale, etica e giuridica. Dato che però la legge degli uomini non segue il ragionamento, allora è giusto fare da sé e incendiare la casa di un noto difensore della tauromachia, lanciare chiodi sulla gente in un'arena, gettare urina in faccia a un presidente di corrida. Senza ombra di dubbio questi gesti non hanno alcuna profondità politica, non possono cambiare le cose o le idee, e somigliano piuttosto alle prime vendette squadriste. Ma l'aporia che emerge in ultima battuta è che la biologia, così spesso invocata per abbattere le barriere di specie, è il primo ostacolo filosofico al pensiero antispecista. L'uomo, nel male e nel bene, fa cose che solo l'uomo può fare. La stessa identica biologia accomuna il macellaio e il difensore dei diritti dei conigli. È tutta questione di cultura? Perché si invocano allora morfologie dei denti e dello stomaco per far derivare dalla biologia arcaica corollari improbabili del tipo "eravamo vegetariani quindi dobbiamo esserlo anche oggi" e poi questa stessa biologia, quando sottolinea una distanza genetica e cognitiva, è lasciata cadere in nome di un culturalismo assoluto? In una società delle emozioni è difficile separare la logica dalla commozione. Ma usare la commozione per aggirare il pensiero logico è malafede. Ed è appunto quello che sta accadendo al pensiero animalista, in cui i teorici dalla faccia pulita lasciano alle frange estremiste il vero lavoro mediatico. In questo movimento a scendere non solo viene a cadere la catena delle argomentazioni, ma si creano le premesse per una risoluzione forcaiola e metafisica del conflitto. Agnus Dei qui tollit peccata mundi...


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