Come la merda e l'affanno
di Valentina Rametta

“E infine all'epoca fu dato / il tipo di merda che aveva richiesto”. Sono gli ultimi versi di una poesia di Ernst Hemingway dal titolo The Age Demanded. In effetti la merda è una buona metafora per descrivere la situazione generale di vita che abbiamo oggi.

Tendenzialmente ci sentiamo tutti un po' nella merda (anche i palati più fini). Non solo nei nostri corpi ma nel nostro sistema degli affetti la merda “fa senso”, conferisce alle nostre sensazioni un ampio spettro di declinazioni. Ci capita di avere una giornata di merda (che implica il sapore che questa giornata ha avuto, un gran brutto sapore), di fare lavori di merda (perché è il senso escrementizio dello sfruttamento che prevale), di sentirci proprio nella merda (quando ad avvolgerci è una realtà materiale soffocante e disgustosa). In linea di massima esprime la sensazione di vivere in una condizione irrimediabilmente compromessa. In pratica le deiezioni indicano qualcosa della forma e della consistenza che certe condizioni e certi stati emotivi assumono per noi. Merda e disgusto, merda e nausea, merda e rifiuto, ma anche merda e informe, merda e umiliazione, merda e affanno. Il lavoratore precario, per esempio, si trova in una situazione di merda perchè senza posto fisso, senza continuità, sottoposto al tritacarne dell'incognita perenne. Oppure pensiamo alla formula shitstorm, la “tempesta di merda”, usata dal filosofo Byung Chul Han per descrivere che cos'è diventata la vita relazionale e comunicativa trasferitasi nel frastuono del mondo digitalizzato. Secondo Han siamo immersi in una vita fatta di due cose: immagini che funzionano come sberle visuali e un mucchio di parole sparpagliate ovunque. La mediasfera innestata al sistema nervoso e ai sensi avrebbe trasformato le interazioni umane in un fecaloma che ingolfa il passaggio del desiderio. Intendiamoci, questa è l'acqua calda, non è una novità che la tecnologia modifichi l'ambiente in cui viviamo. È una novità il fatto che questa cosa ci ha assottigliati nelle relazioni. Abbiamo l'impressione di estendere la comunicazione e di essere potentemente social, ma ci è successo qualcosa, ci siamo impoveriti di passione. Sembra una specie di terapia elettroconvulsivante che sta cancellando pezzi di memoria sensibile, piccoli particolari non trascurabili tipo la prossemica dei gesti, delle distanze, fare una telefonata, guardare un corpo invece che uno schermo. Elias Canetti l'avrebbe chiamato “il dialogo con il terribile partner”.
In pratica vuol dire che siamo nella merda perché stiamo diventando immuni agli Altri. Facebook & co. ha reso possibile la vita senza prossimità e senza corpo donandoci in cambio l'espansione della tecnologia della scelta. Questa è la nuova social-labilità, Facebook & co. è qualcosa di più di una tecnologia perché sta cambiando (forse lo ha già fatto) i nostri connotati cognitivi, sta cambiando la struttura della relazione. Lo smartphone, non è solo una macchina, è un organo vitale, un respiratore, un vibratore. E' diventato una struttura del sentimento, una condizione delle relazioni col mondo, è un oggetto erotico perché erode l'Altro, lo lascia scomparire nell'inferno narcisistico.
La generazione a cui appartengo si è lasciata andare completamente alla tecnologia della scelta. Fatto sta che il beneficio di questa cosa fluida ha trasformato le forme della vita in una porcellana intima che trascina in una miscela di conformismo e nevrosi. E ogni singolo corpo sembra reggersi sul filo della tautologia, un esibizionismo dell'io che non concede alcun Altro/ve. La sintesi? È l'uomo senza Altri sulla propria isola.
Agli albori della messaggistica istantanea e dei social networks tutto era ancora rigido, dialettico, vagamente illecito anche, nel dare e celare una libertà che era un gioco di autofiction. Adesso la performance è diventata quella del sottrarsi, perché l'interazione online, istantanea e sempre attiva, non è uno spazio del pensiero e del desiderio, non sperimenta le molteplicità dell'io, non ha pause e non è una voce. È uno spazio claustrofobico che nel migliore dei casi può misurare 27 pollici ma con l'aggiunta di un grande trucco. In quel minuscolo regno abbiamo il chiarore accecante di informazioni e dati di qualsiasi tipo – che ci inebria del nostro potere sugli altri – e la grande libertà dell'autofinzione – che è un indice del potere che questa ha su di noi. Sono due estremismi emotivi, e sono due forme di abdicazione dal baratro del corpo a corpo con gli occhi dell'Altro.
Stiamo facendo con noi quello che abbiamo già fatto con gli animali. Gabbie e zoo, epitaffi di un incontro. Gabbie per lo sguardo, per le parole, per i gesti, e zoo per disabilità emotive, per settarismi forcaioli, per libertà a buon mercato. Nella città abbiamo perso gli occhi dell'animale che ci scrutava attraverso il baratro della non comprensione. Nella cyber-città ora stiamo perdendo anche quelli dell'essere umano. Come l'animale è diventato l'osservato, così Facebook & co. ci trasforma negli osservati, un insieme di facce ammassate di dettagli in cui tutti sono guardati. La caratteristica più significativa della social-labilità è la guardabilità. Il fatto di essere guardabili senza poter vedere gli occhi dell'Altro ci avvicina al rischio che la vita possa diventare immagine. Questo è il punto, il visibile senza invisibile, l'uguale senza l'atopos. Ci manca l'abilità di immaginare e sperimentare l'attimo di panico di fronte l'abisso dell'Altro, di accettare gli occhi dell'Altro che ci guardano pericolosamente e ci aiutano a dialogare con noi stessi perché fanno tremare il linguaggio. Perché sì, siamo vulnerabili di fronte agli Altri. È questo il piccolo scricchiolio dello sguardo.
L'alternativa la stiamo già incarnando, l'ho scritto da qualche altra parte che consumiamo più psiche che spazzatura. È il discorso della merda. Svegliarsi una bella mattina scoprendo che tutta questa social-labilità ritardante-stimolante è l'ultima cosa che ci è rimasta per fare i conti con i nostri occhi, per ritornare nei luoghi dei suoi tradimenti, evitando che l'ultima cosa vivente sulla terra sia la solitudine del tuo cervello che riprogramma dall'interno l'algoritmo della propria alienazione. È che questo esasperante “adesso sociale” che ci racchiude ci rende paurosi degli occhi dell'Altro e sta uccidendo ciò che amiamo. Può darsi sembri inutile, ma quando ci si ridesta dalle prime vertigini di paura si comincia a essere i poeti delle proprie vite. E sì, l'altro problema è questo, la poesia. Siamo fatti per stare fuori di noi, per essere punte di spillo piantate nell'atopia dell'Altro/ve. Perché questa natura che stiamo accettando un po' troppo passivamente non ammette alcuna negatività dell'Altro, preferisce perdere gli occhi per una rassicurante differenza consumabile, per restare sola in ciò in cui può riconoscere se stessa. Preferisco uscire fuori per chiedermi cosa siamo diventati. Preferisco la poesia dell'inutile, del panico di un paio d'occhi arborescenti, perché quando sei nella merda ti viene voglia di vedere se esisti davvero.
Cerco con nostalgia il mostro come il felino rappreso di Chauvet. Siamo noi a essere davanti all'interruzione di qualcosa, a essere scivolati in un abisso insondabile. Per questo penso allo scricchiolio, al disordine dei sentimenti inutili. Penso all'arrivo di un amante come quello di Derek Walcott, “che perfino con la merda e l'affanno / di quel che ci facciamo a vicenda / contraddice la prosopopea della disperazione / con alcune scintillanti semplici cose, acqua, foglie e aria, / che eccitano dissoluzione pronta ad andare oltre la felicità”.




Nessun commento:

Posta un commento