APPENNINICA


Appenninica è l’esito di un progetto ventennale su paesaggio, immaginario e parola poetica. Diviso in tre sezioni (Sulle piste della selvaggina, Memorie della biosfera, Canto bruno) raccoglie 61 poesie di breve e media lunghezza. Argomento dominante è il paesaggio, le dinamiche geologiche e biologiche del pianeta, l’antropologia dei popoli cacciatori-raccoglitori, la dimensione effimera del tempo e della memoria. Con scelte tematiche e stilistiche che si discostano dalla tradizione lirica italiana, Appenninica è una ricerca ispirata all’epica orale, alla filosofia delle immagini, alla poesia di lingua inglese (Dylan Thomas, Kenneth White, Gary Snyder, Seamus Heaney, Derek Walcott). L’Appennino, microcosmo geografico e laboratorio di “esercizi naturali”, è un liber naturae per ragionare su una nuova poetica della terra e sulla relazione tra l’uomo e il cosmo.

Qui un'intervista di Mariadonata Villa all'autore.



Mariadonata Villa: Stai ultimando una raccolta che copre vent'anni di produzione poetica, accanto a una ricchissima produzione saggistica. Che cosa c'è nella poesia che non c'è nella prosa?

Matteo Meschiari: Niente. Per me è una specie di bilinguismo. Ci sono le stesse cose, i paesaggi, i gruppi umani e il loro vivere lo spazio, il passaggio del tempo inteso non come Storia ma come racconto. I saggi mi è venuto più facile pubblicarli, parlo proprio dei rapporti con gli editori. Invece la poesia viene prima, a volte riemerge come una vena carsica anche nella prosa “scientifica”, come forma, nella lingua, e questo ha dato fastidio a certa accademia. La poesia però mi è sembrata sempre molto più seria dell’università e per vent’anni non ho fatto quasi nulla per vederla su carta. Non so, forse perché secondo me è questione di ricerca pura, non di comunicazione, un laboratorio dove si studia e non dove ci si beve in pubblico. Kenneth White ha detto che non conta il dialogo tra uomo e uomo, ma quello tra uomo e cosmo. Diciamo che questa frase mi ha guidato per molti anni, e lo fa ancora adesso. Comunque Appenninica è pronto, adesso è anche un libro, arriverà su carta entro la fine dell’anno. È venuto il momento perché la morte di alcuni amici mi ha messo fretta.


In questi testi i morti tornano in vita da secoli lontanissimi, cercando un Nord infinito tra i ghiacci. Che cos'è, per te, il Nord?

I morti sono molti, specie nella terza parte del libro, che s’intitola Canto bruno. È un titolo che ho rubato a Biamonti, l’ho letto in un suo manoscritto inedito, a San Biagio della Cima, poco dopo la sua morte, e figurava tra i possibili titoli di quello che sarebbe diventato l’Angelo di Avrigue. Il senso di perdita, di malinconia del tempo è forte nei romanzi di Biamonti, tramonti, addii, tutto va via. I miei fantasmi, sulla soglia dei cinquant’anni, cominciano a essere molti, a volte li evoco, per cercare una connessione con cose e persone che non ci sono più. Cose e persone del mio passato, o di un passato così lontano che l’umanità non ne ha più memoria. Non mi piace chiamarla preistoria, ma in definitiva è quello, il Pleistocene, i popoli cacciatori-raccoglitori, la glaciazione. Amo i ghiacciai, c’è stato un tempo che ci andavo a fare alpinismo, poi, staccandomene, sono diventati dei testi di ars poetica. Per me la poesia dovrebbe essere come un ghiacciaio, densa, mobile, fratturata, lucida, fredda, a volte trasparente, a volte no, pesante, corpulenta, abrasiva. Non amo le fontane chiare, mi piacciono i torrenti fangosi, se capisci cosa voglio dire… Il Nord è per me il luogo dove incontrare i ghiacciai, è il bordo della mappa dove andare a cercare poesia. E poi c’è un Nord anche nel tempo, quello dei ghiacciai che non esistono più, come in Appennino. I ghiacciai-fantasma dell’Appennino sono il mio liber naturae. E Appenninica è una specie di Libro dei morti, di tutti i morti che come una bussola indicano il Nord.


Lo sciamano che parte accompagnato dai canti degli amici radunati, da cui torna a sera. Che cosa c'è del poeta in questa immagine?

Lo sciamano racconta storie, che poi è sempre la stessa identica storia, un viaggio di metamorfosi, di paure e lotte, di ritorni e partenze, di animali e di mali da sconfiggere. Niente di nuovo insomma. Oggi il poeta è una creatura degli interstizi, priva di ruolo sociale. Serve ai radical chic per inaugurare aperitivi o per la buona coscienza degli assessorati alla cultura. Ombre nel Tardo Occidente, vermi in un fondo di bottiglia, come direbbe Hemingway. Poi ci sono gli sciamani, quelli che dialogano con il cosmo, come Seamus Heaney, Kenneth White, Lorand Gaspar, Juan Liscano, Derek Walcott, Les Murrey, Wendell Berry, Gary Snyder. In Italia c’era Dino Campana. In Galles Dylan Thomas. Gente che ha viaggiato tra i mondi ed è tornata per guarirci. So che è un po’ estremo, ma io la vedo così.


Perché cantare la terra estrema, le geografie lontane piuttosto che la storia contemporanea?

Tolkien diceva di voler raccontare il lampo, non il lampione. Ma in fondo che cosa c’è di più attuale, di più contemporaneo del Pleistocene, dell’Artico, delle Terre Esterne? Per capire il qui-adesso è necessario andare il più lontano possibile. Per pulirsi gli occhi, per guardare da vicino e da lontano. A me interessa il contemporaneo, dove vivo, le persone con cui condivido l’unica vita che mi è concessa. Però è nell’era glaciale di 40.000 anni fa che trovo la lucidità per orientarmi.


Perché canti di dipingere cervi, fare immagini, di costellazioni che bucano la pietra? Cosa manca all'immaginario, oggi, che viviamo di immagini?

È un discorso lungo, che non ho iniziato io ovviamente. Proprio oggi che viviamo in un mondo in cui l’immaginario è letteralmente colonizzato, oggi che immagini di consumo, di controllo, di odio ci entrano in casa e in testa, è urgente e necessario riaprire una riflessione coraggiosa e onesta sul fare immagini. Il ruolo del poeta è cruciale in questo, perché il poeta non è un fabbro o un artigiano della lingua, come qualcuno ama ripetere, il poeta è un luogo in cui brillano immagini, è un cranio dove immagini vivide vengono proiettate come in un planetario di carne. Un’antropologia del sogno è ancora tutta da scrivere, ma il punto di partenza lo ha additato Werner Herzog in Cave of forgotten dreams: la grotta Chauvet, vecchia di 32.000 anni, letta non come un reperto preistorico ma come un dispositivo di cattura dell’immaginario, come luogo in cui l’uomo ha fissato le sue prime ossessioni visuali, soprattutto animali. Herzog ha capito che la contemporaneità e l’odierna babele di immagini va sciolta e decodificata a partire da una grotta paleolitica piena di pitture rupestri. Nel 1994 è stata scoperta Chauvet, la nuova Lascaux. È proprio in quel periodo che ho iniziato a scrivere Appenninica.


La poesia è una forma di resistenza? A cosa?

Alla non poesia. Lo ripeto, la poesia non è comunicazione tra uomo e uomo, è l’alternativa a questa comunicazione ipersatura. È una lezione di silenzio, di solitudine. Un giorno Gary Snyder mi ha raccontato di quando, per una breve stagione, ha lavorato per il servizio forestale nella Sierra. Doveva segnalare gli incedi. Erano in quattro o cinque vedette, su montagne diverse, e la sera si chiamavano via radio. Ecco, un poeta che sta solo, gli incendi, una radio. Non è una resistenza dialettica, un agone, non è Prometeo contro gli dei avari e generoso verso un’umanità misera. Nessuna retorica del sacrificio, del superomismo. Penso invece alla Resistenza fatta da una ragazzina di quattordici anni che porta messaggi in bicicletta ai Partigiani. Non lo fai perché credi di salvare l’umanità. Lo fai perché senti che è giusto così. Come i Soldati di Salamina di Cercas: siempre hacia delante, sempre avanti, senza troppe domande esistenziali.


Che cosa c'è, nell'eterna ricerca della pietra azzurra del ghiaccio, che non hai ancora trovato? E che cosa invece hai trovato?

Non lo so. So che ho trovato Appenninica, che è come la relazione finale di una ricerca durata vent’anni. Un lavoro sulla parola poetica, sui brillamenti dell’immaginario, sul sognare cose che nessuno ha visto con i propri occhi ma che sono immaginabili: com’era il pelo di un mammut? Cosa si era impigliato nei suoi noduli di fango? Erica? Sabbia di ghiacciaio? Sangue? Il canto di caccia di un giovane Sapiens sapiens? Tu alludi alla poesia Iter, dove c’è un marinaio che parte da un porto del tardo antico per salire a Nord, sulle rotte dell’ambra. Fa naufragio. Un popolo dell’artico lo raccoglie. Da loro impara una nuova vita. Allora resta là e baratta la ricerca dell’ambra e del soldo con qualcosa di più effimero, di più insensato, il ghiaccio. Perché? Non ne ho idea, ma mi sembra la pista giusta per lui. E per me.


Di contro al grande tempo dell'Io ipertrofico che viviamo, nei tuoi testi spesso esiste un tu, un'alterità alla quale ti metti in relazione. È necessario tornare al tempo dell'altro?

Direi di no. Almeno non per la poesia che mi interessa. Piuttosto, l’antropologo Carlo Severi parla dell’enunciatore complesso, proprio riferendosi allo sciamano: il suo io si moltiplica, è narratore ma anche personaggio multiplo della sua narrazione. Il mio “tu” è quell’io che non conosco, che non riconosco, che disconosco per qualche ragione, sono io senza l’io ipertrofico di cui giustamente parli. Io-cacciatore, io-navigante, io-animale, io-eschimese, io-pietra, io-ghiaccio. Potremmo scomodare Whitman ma è qualcosa di un po’ diverso. Il mio “tu” è sia lo sdoppiamento di un monologo sia un invito a chi ascolta a fare la stessa cosa: lasciare il suo io per entrare nell’io di qualcun altro, diventare personaggio di un racconto che lo porta fuori dalla sua palude, o dalla semplice trappola di una vita al singolare. La poesia che mi interessa non parla delle sfumature dell’anima, racconta storie.


Quale compito ti riconosci, come poeta? Nella grande narrazione biblica, l'uomo è colui che è chiamato a dare un nome alle cose. Quale richiamo avverti tu nel tuo scrivere?

Si parla molto del potere della poesia di rifondare il linguaggio, di svecchiare metafore ingessate eccetera. Mi sembra impossibile farlo finché si identifica la poesia con gli autoritratti allo specchio che riempiono gli scaffali più smilzi della Feltrinelli. Oggi l’equazione è data per scontata: poesia uguale lirica di una decina di versi in cui prendo spunto da un’ecceità (il fumo di una sigaretta, il traffico in città, la luce sul tavolo di cucina, il sorriso della nonna) per parlare di quanto sono infelice e fuori posto in questo mondo però il senso della vita lo so e ora te lo dico andando a capo. Insomma, per millenni la poesia è stata poesia di terre, di popoli in movimento, di animali e alberi, di viaggi nell’altrove e nell’aldilà. La Genesi, l’Ecclesiaste, Il Cantico dei cantici, il Kalevala, l’Edda di Snorri, la Chanson de Roland, i Presocratici, Omero, Gilgamesh, non sono roba vecchia, sono il futuro della poesia: narrazioni larghe, repertori di modi della parola tutt’ora funzionanti, poco io, poco Dio, molta terra.


Recentemente abbiamo discusso del concetto, sentito da Francesco Benozzo, dell'incondivisibilità del cammino del poeta. Sei d'accordo?

A Enkidu, il festival di letteratura selvatica che ho organizzato con Maurizio Corrado il maggio scorso, Francesco Benozzo ha fatto un intervento radicale, in cui ha sostenuto che la poesia è incondivisibile. Sono d’accordo con lui. Con Benozzo abbiamo fatto un lungo percorso poetico condiviso, iniziato almeno trent’anni fa, ma per noi condivisione non era leggerci le cose, era scrivere a due mani, usare due voci e farle diventare una. Le cose che abbiamo scritto assieme sono quasi introvabili, non abbiamo mai fatto niente per farle girare nei canali “ufficiali”. Ci andava bene così. Sono d’accordo con Benozzo perché abbiamo la stessa formazione (l’epica, l’oralità), abbiamo la stessa idea di poesia, e perché, come dicevo all’inizio, la poesia non è questione di comunicazione ma di resistenza.


"Niente caccia se non tra le cose / dentro un niente ferito che non torna". Il tuo manoscritto si chiude così. Che cos'è questo “niente ferito”?

La poesia parla di un cervo e di un cacciatore. Se vuoi, il cervo è la poesia, intesa come entità viva, muscolare, selvatica, non domesticabile. Il cacciatore tira la freccia e ferisce il cervo. Come finisce la storia? Non finisce. Non sappiamo se il cacciatore prende il cervo oppure no. Non conta. Quello che conta è il momento in cui l’uomo ha visto l’animale, quando il poeta vede l’immagine che sta cacciando. Che la prenda oppure no non importa. Perché, comunque vada, tutto finisce, il cervo, la caccia, la poesia, il cacciatore, la vita. Tutto va in nulla. L’unica cosa che conta prima del buio è quel pelame rosso intravisto come un lampo in un paesaggio di nebbia.


Questa domanda, forse, dovrebbe stare prima. Trovo che i tuoi testi, benché scritti, abbiano una forte qualità orale. Andrebbero forse, meglio, detti. La poesia dovrebbe riconquistare una dimensione orale, vocale, al di là delle liturgie contemporanee dei reading?

Mi piace “liturgie contemporanee”. È detto bene. Sì, il grossissimo problema della poesia oggi è lo spazio: dove farla accadere? Teatri, tendoni, sale parrocchiali, librerie, biblioteche, en plein air? Se vogliamo ammazzarla sì. Oppure può andar bene così per gli scrittori di plaquette che amano i rituali tautologici delle presentazioni pubbliche. Ma lo spazio della poesia è sempre solo prima. Sulla montagna, da soli, mentre si vigila sugli incendi. Solo lì c’è la voce che ci si dice dentro. 



Nessun commento:

Posta un commento