IL "PRIMITIVO"
Lo spazio impuro della cultura

di Francesco Gori

L'intera umanità è eternamente e in ogni epoca schizofrenica
Aby Warburg

Gli appunti preparatori alla conferenza sul Rituale del serpente, classificati al Warburg Institute come Pueblo Indians Lecture Drafts, contengono le intuizioni più folgoranti di Warburg sull’antropologia generale. È in queste note, infatti, che ha formulato la sua concezione dell’Unzerstörbarkeit des Urmensches, la “indistruttibilità dell’uomo primitivo” che rimane “inalterata al mutare delle epoche e delle culture”, la cui fisionomia si ritrova nei simboli e nei rituali degli indiani pueblos, nella tragedia della Grecia classica, nell’arte del Rinascimento Fiorentino e nella cultura della civiltà contemporanea.


Nella sua riflessione teorica sulla struttura trans-storica della cultura Warburg si è servito della malattia mentale di cui era affetto, il bipolarismo, per rimettersi in contatto con uno strato “originario” dell’umano in cui emerge la struttura essenzialmente bipolare dell’edifico della cultura. Grazie a questa esperienza “sciamanica” Warburg poté elaborare un modello organico della cultura, intesa non come non come progresso diacronico e lineare, ma come evoluzione da un centro che rimane sempre lo stesso – come un albero che germoglia da un seme, per poi accrescersi, diramarsi, complicasi, ma senza perdere la sua radice. Per questa ragione il termine “primitivo” scelto dai traduttori per ragioni eufoniche, restituisce in maniera impropria il carattere dell’Urmensch come lo intendeva Warburg, che è piuttosto un “uomo originario”.
Inizialmente, il “primitivo” fu introdotto nel dibattito antropologico ottocentesco per sostituire il “selvaggio”, dispregiativo ed etnocentrico, allo scopo di conferire oggettività scientifica alla trattazione sulle culture “altre”. Se, infatti, il termine “selvaggio” si riferisce a un generico abitatore delle selve, contrapposto metonimicamente al progredito uomo “civile”, col concetto di “primitivo” gli antropologi di epoca vittoriana, capitanati da Frazer, hanno inteso riferirsi, col dovuto “distacco  scientifico”, a tutte le culture non ancora toccate dal progresso della civiltà. Il “primitivo”, insomma, è l’uomo delle origini, l’Urmensch. Da questo punto di vista, sembrerebbe non esserci nulla di sbagliato nella traduzione del termine warburghiano; se non fosse, però, che col termine Urmensch Warburg non si riferisce a popoli lontani nel tempo, nello spazio e nel costume, ma precisamente a se stesso e alla propria cultura, in continuità e non in contrapposizione alle culture cosiddette primitive. Il suo Urmensch è un uomo “originario”, ma non “dell’origine”, “elementare” e “primario”, ma non “primitivo”; è l’uomo tout court, colto nell’originarietà del suo agire simbolico.
Come ha osservato Matteo Meschiari in Antispazi. Wilderness Apocalisse Utopia, il concetto di “primitivo” non solo costituisce l’antispazio necessario e consustanziale al concetto di “civiltà”, ma si polarizza in due opposti spazi di pensiero, legati l’uno all’altro come due diodi elettrici. Nello spazio ufficiale della nostra cultura, il “primitivo” tende a essere identificato con l’uomo non ancora civilizzato, costretto a errare nelle boscaglie perché non ancora toccato dalla luce della razionalità. Ma c’è anche una versione positiva del primitivo, antipoidale alla prima, e che potremmo definire come “primitivismo”, prendendo a prestito il termine dalla storia dell’arte del ‘900. Il primitivismo ricerca nel “primitivo” un’origine edenica, un’arcadia dalla quale la frenesia della modernità ci ha allontanato irrimediabilmente, quando l’uomo era ancora capace di parlare con gli dei, amico delle piante e degli animali. L’uomo primitivo diventa così l’uomo organico, ecologico, armonico, che vive nelle selve perché ancora non corrotto dalla civitas, dai suoi ritmi insensati, dai suoi conflitti, dalla sua violenza, dal suo inquinamento. Il “non ancora…” del positivismo modernista è ribaltato in un nostalgico “ancora non…”.
In entrambi i casi, sia nello spazio “illuminista” che nell’antispazio “primitivista”, il primitivo è identificato con l’uomo dell’origine, un’origine cancellata per sempre dal progresso. È questo il cuore pulsante del logos occidentale, dai greci a oggi, la sua autentica posta in gioco, rispetto alla quale la distinzione tra illuminismo e primitivismo, tra razionalismo e irrazionalismo, non sono che riflessi di superficie, uno che vede il progresso a partire dall’origine come una serie di conquiste rispetto a uno stato ferino primordiale, l’altro come un allontanamento catastrofico da uno stato di armonia cosmica, l’uno razionalista e positivista e l’altro irrazionalista e nichilista. In questo quadro, come osserva Meschiari, le correnti new age e l’immaginario contemporaneo della Wilderness e del ritorno alla natura non hanno nulla di rivoluzionario, ma sono una spinta endogena alla civiltà industriale e postindustriale, perfettamente organica ad essa, nella quale si produce l’orizzonte narrativo della sua legittimazione.
Per rendersi conto di questo immaginario di evasione che abita in profondità il logos occidentale basta farsi quattro passi nei corridoi della metropolitana di qualsiasi grande città europea, in quello che, cioè, costituisce l’autentico spazio della civitas contemporanea, lo spazio in cui, ogni giorno, i cittadini transitano per svolgere le loro funzioni vitali. Fin da un primo sguardo, ci rendiamo conto di come esso sia letteralmente tappezzato dal suo antispazio di evasione: “vola con soli 19 euro” in Marocco, in Puglia, sulle Dolomiti, in Grecia, oppure – con qualche spicciolo in più – in Sri Lanka, alle Fiji, in Tailandia. A loro volta, questi antispazi dell’immaginario turistico si dividono in due macro-categorie: da una parte, contro il grigio spazio di transito del metrò si stagliano le immagini di luoghi in cui la cultura è ancora intatta, con le sue tradizioni, i suoi odori, i suoi sapori, la sua cucina, le facce dei suoi abitanti, vere, autentiche, vissute, una cultura autoctona non scempiata nella non-cultura globale dei fastfood, degli aeroporti e degli shopping mall, (i presunti non-luoghi della presunta non-cultura); dall’altra quelli in cui è la natura ad essere ancora vergine, non stuprata, non ridotta alla “waste land” dei grandi conglomerati urbani in cui vivono le masse anonime del ceto produttivo, i sorci dell’underworld metropolitano, che ciondolano lugubri nei vagoni del metrò, sognando uno spicchio di sole a buon mercato con cui riscaldarsi l’anima per due settimane all’anno.
Già da questa brevissima ricognizione si può trarre una considerazione di carattere più generale: lo spazio del logos occidentale si specchia costantemente nel suo antispazio immaginario d’evasione, nelle tracce del suo desiderio, nei crocevia iconici del suo inconscio. La civitas si ricapitola punto per punto nella selva, il cittadino non fa che sognare il selvaggio, l’artificiale il naturale, l’inautentico l’autentico. Allo stesso tempo, però, anche il “selvaggio”, una volta entrato in contatto con il sogno prometeico della modernità – l’automobile, la televisione, il cellulare, un profilo facebook – comincia a vagheggiare di saltare anche lui, un giorno, sul treno della civitas, autoaccusandosi per la sua arretratezza e adoperandosi con ogni mezzo per colmare il “gap”. Talvolta con esiti tristemente grotteschi: alcuni anni fa, nel corso di un soggiorno sulle Ande peruviane, mi è capitato di incontrare una coppia di campesinhos che, pensando di dare loro dei nomi “moderni” (e con essi delle chance migliori nella grande città) aveva chiamato i propri figli Batman e Robin... Ricordo anche come gli abitanti del microscopico pueblo di Llalla nel tempo libero si inerpicassero sulla “puna”, a oltre 4500 metri di altitudine, dove per qualche mistero dell’elettromagnetismo i cellulari prendevano nonostante l’assenza di ripetitori nel raggio di decine di chilometri, per mandarsi messaggini d’alta quota tra di loro, dato che non avevano nessun altro sufficientemente lontano con cui tele-comunicare.
Come ha mostrato Warburg, le culture – ogni cultura, non solo  la nostra – si rappresenta i fenomeni attraverso una sostituzione simbolica, presentificando ciò che è assente e allo stesso tempo rendendo assente nel simbolo ciò che è fisicamente presente; in altri termini, la cultura stessa, nella sua forma più generale, è la creazione di “una distanza consapevole tra l’io e il mondo”, l’evocazione di un altrove, di un luogo altro rispetto “a questo luogo”, di un’altra cosa “rispetto a questa cosa” che sono i simboli e gli oggetti di cui ci serviamo per comunicare. Se non avessimo la capacità di trascendere il dato sensibile per rivestirlo di attribuzioni semantiche, la capacità di servirci di media, non saremmo uomini. Di conseguenza, qualsiasi luogo, intriso di senso, di narrazioni, di immaginario, è una superficie in cui si spalancano infinite finestre verso degli altrove, altrove che possono essere desiderabili o detestabili, piacevoli o sgradevoli, palingenetici o apocalittici, catartici o reclusivi, liberatori o asserventi. In breve, u-topici o dis-topici: perché ogni “luogo altro” incistato nei luoghi in cui abitiamo il nostro qui e ora, non è mai altro in maniera neutra (atopia), ma sempre e necessariamente altro “in un certo modo”, positivo o negativo, desiderante (utopia) o disperante (distopia).
Ogni spazio si produce nella tensione polare tra utopia e distopia, e nella possibilità sempre palpabile di una loro inversione di senso, di una trasformazione del sogno in incubo, e viceversa. I luoghi intrisi di storie e desiderio in cui meniamo le nostre vite, siano essi le mura domestiche o i terminal degli aeroporti, sono il punto limite, il grado zero dell’oscillazione tra utopia e distopia, tra altrove da sogno e altrove da incubo. Ed è nell’oscillazione di questo pendolo che Warburg addita la sistole e la diastole della cultura umana, ravvisando nella ciclotimia culturale tra stati maniaci e depressivi la struttura stessa di un’antropologia generale, ancora tutta da scrivere. Gli spazi non sono fatti puri, ma fatti interpretati, né oggetti puri, ma media, mediatori di un senso, portatori di una semanticità instabile, cangiante, disseminata, gravidi di storie, sporcati, usurati dall’uso, superfici su cui scrivono i writers, su cui appiccichiamo gomme da masticare, gettiamo mozziconi di sigarette, che usuriamo con le nostre scarpe, che consumiamo, lisciviamo, ungiamo col sudore delle nostre mani.

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Il pensiero dell’origine del logos occidentale produce narrativamente il proprio fondamento a partire dall’opposizione binaria spazio|antispazio. In questa zona di indistinzione tra spazio e antispazio fluttuano i tre concetti su cui riflette Meschiari – “Apocalisse”, “Wilderness”, “Utopia” – che si caricano di senso soltanto se fatti reagire con i loro conversi antipodali: “(palin)Genesi”, “Civiltà”, “Distopia”. In altri termini, ciascun elemento della coppia polare “spazio | antispazio” (“[palin]Genesi | Apocalisse”, “Civiltà | Wilderness”, “Utopia | Distopia”) acquista significato soltanto se entra in tensione con il proprio antipolo. Nella cultura, infatti, il senso si genera come l’elettricità: è la tensione tra due poli. Il concetto di Apocalisse, ad esempio, ha senso solo in tensione con l’antipolo della Genesi, perché non ci può essere fine del mondo se non c’è stata una creazione – perché, banalmente, nulla può finire che non abbia avuto un cominciamento.
Ogni spazio di pensiero, producendo il proprio antispazio produce anche il suo fondamento epistemologico: l’uno è il Grund su cui poggia l’altro. Per questo, dal momento che traggono il loro senso da una tensione, e non dal riferirsi a una sostanza, a un essere esterno e immutabile, polo e antipolo possono scambiarsi costantemente di posto, e le coppie polari stesse possono essere combinate in infiniti modi possibili: la Wilderness è contemporaneamente “utopia” (per i frikkettoni primitivisti) e “distopia” (per gli scientisti razionalisti), e viceversa, la Civiltà è utopia per i razionalisti e distopia per i primitivisti; allo stesso modo l’Apocalisse è rappresentata dalla Wilderness per i razionalisti e dalla Civiltà per i primitivisti, così come la Genesi è la Civiltà per gli uni e la Wilderness per gli altri: potremmo andare avanti all’infinito a giocare a lego con questi concetti vuoti – o per dirla con Uwe Pörksen, con queste “parole di plastica”.
Warburg decise di situarsi nel pieno di questa tensione, come un “sismografo dell'anima posto sullo spartiacque tra le diverse culture […]tra Oriente e Occidente, spinto da un'affinità elettiva verso l'Italia e costretto a costruire la mia personalità sul confine tra Antichità pagana e Rinascimento cristiano del XV secolo, ero stato spinto in Americaper conoscere come la vita nella sua tensione oscilli tra i due poli dell'energia naturale: istintiva e pagana da un lato, intelligibilmente strutturata dall'altro[1]. La cultura umana è il prodotto di un’oscillazione ciclotimica tra polarità opposte, in cui l’ontologia, la logica, la verità, la scienza e la politica non sono il fondamento su cui tutto si regge, ma un caso limite di questa dinamica pendolare che genera il senso oscillando da un estremo all’altro. L’Urmensch che ha incontrato nei pueblos del Nuovo Messico e che ha scoperto di essere lui stesso una volta spogliato dalla malattia mentale dal suo habitus vittoriano non ha niente a che vedere con gli uomini allo stato di natura a cui gli antropologi hanno dato la caccia negli angoli più sperduti del globo. L’Urmensch non è l’uomo “dell’origine” – buono o cattivo, desiderabile o deprecabile, utopico o distopico – ma l’uomo “originario”, catturato nell’oscillazione tra distacco razionale e abbandono orgiastico, tra contemplazione e fusione, tra Apollo e Dioniso, tra hybris e terrore, tra mania e depressione.
La natura stessa di quest’ “uomo di mezzo”, gettato tra le cose che accadono, preso nelle necessità del vivere, nelle sue paure e nelle sue gioie, nei suoi dolori e nei suoi piaceri, è quella di elaborare simboli, di “spiritualizzare il mondo”, tentando di attribuire una causalità a ciò che accade, riconducendolo al cerchio delle sue credenze, facendo astrazione dal contingente per poter tracciare connessioni più generali. Quest’ “uomo di mezzo”, che rovista nella polvere del mondo alla ricerca di un senso che lo orienti nella vita, non sono soltanto gli Hopi di fine ‘800, sulla via della civilizzazione dopo due ondate coloniali, né il Warburg “ciclotimico” di Kreuzlingen: quest’uomo di mezzo, “eternamente schizofrenico”, siamo noi stessi che dondoliamo nel vagone del metrò.



[1] A. Warburg, Gli Hopi, La sopravvivenza dell'umanità primitiva nella cultura degli Indiani dell'America del Nord, a cura di Maurizio Ghelardi, Torino, Aragno, 2006, p. 88. 

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