Professioni di ateismo I

di Alfonso Pinto


6 aprile 1909: l’americano Robert Peary raggiunge il polo nord. 4 novembre 1911: Roald Amundsen, norvegese, poggia i piedi al polo sud. Di quella Terra Incognita che ancora agli albori del XIX secolo, occupava parte delle mappe, sembra non esserci più traccia. L’effettiva conquista dei poli tuttavia non è che l’ultimo sussulto, un tassello tutto sommato non decisivo di un puzzle la cui fisionomia era già ben definita da almeno una trentina d’anni.


1858. Richard Burton e John Henry Speke, per conto di sua Maestà, esplorano la regione dei grandi laghi africani. Poco dopo David Livingstone e Henry Stanley… è il 1866. La sete di esplorazione si appresta a rimanere inappagata. Ben presto mancherà l’acqua. La voglia di andare lì dove nessuno mai prima deve fare i conti con una realtà senza virgolette. Quella realtà che non ammette compromessi. Per quanto tu possa andare avanti a oltranza, prima o poi tornerai al punto di partenza. La geografia, quella vera, non ama certi relativismi.

Dietro tutto questo, però, non c’è solo quella brama di conquista, quell’avidità genocida che tanto ha segnato mezzo millennio di viaggi e scoperte. Prendiamo Ernest Shackleton e l’Endurance. Una spedizione trans-antartica che comincia nel 1914, mentre in Europa il sangue comincia a tingere di rosso la terra, e conclusasi due anni dopo. Un’epopea, quella di Shackleton e dei suoi, che mai nessuno è riuscito ad emulare. Una nave stritolata dai ghiacci. Una marcia forzata attraverso la banchisa con tanto di barche al seguito. L’oceano, il freddo, la fame. L’isola dell’Elefante. E poi ancora un viaggio di 1500 chilometri attraverso i flutti dei 50 urlanti… fino alla Georgia del Sud. Non è finita. Prima di una salvezza insperata… una montagna da scalare. L’epilogo rasenta la fantascienza. Shackleton trova i soccorsi e torna all’Isola dell’Elefante per recuperare il resto di quella “picciola compagna” che mai lo disertò. Tutti coloro che lasciarono l’Inghilterra per mettere piede in quell’ultimo lembo di Terra Incognita, rientrarono a casa sani e salvi. Perfino un clandestino.

Quando raccontai questo episodio a un geografo, fui laconicamente liquidato con uno sprezzante riferimento al colonialismo, alla conquista, a una “narrazione eurocentrica di dominio”. Chi mai potrebbe negare che la politica estera britannica non consistesse nel “far di tutto il mondo l’Inghilterra”? Tuttavia, ridurre l’epopea dell’esplorazione terracquea a una mera e semplice questione di soldi e di dominio, è operazione quantomeno semplicistica. Quel post-colonialismo (o postcolonialismo che dir si voglia), nato dal rifiuto delle “grandi narrazioni”, è diventato a sua volta una “grande narrazione” che riduce la nostra comprensione del mondo anziché ampliarla, che appiattisce una realtà tanto bella quanto orribile, ma soprattutto che si macchia di quel determinismo che tanto voleva osteggiare. Giusto per inciso, io preferisco largamente un sano e semplice anticolonialismo, che tutto è tranne che una “narrazione” (grande o piccola che sia). Che ti piaccia o no, il tuo essere e la tua coscienza sono passati da li’, e se credi che un posticcio mea culpa, condito in una salsa dall’impercettibile gusto pseudo-scientifico, possa lavarti la coscienza… beh… la delusione sarà inevitabile. Resta la via dell’illusione. Il postcolonialismo è allora il vostro battesimo, il lavacro che monderà il peccato originale commesso dai vostri padri. Crederci è lecito. Dubitarne, però, è assai più ragionevole. L’ateismo non è cosa da poco. Ci vuole impegno.

Leggete Attilio Brilli e quella sua meravigliosa antologia geografico-letteraria. Leggete come, dietro all’illusione di un sapere di emancipazione, vi sia solo une delle più antiche pratiche religiose: l’uomo che sfida Dio e le sue leggi. Non c’è né rivelazione né catarsi nelle pagine di Brilli, ma solo una scomoda verità. L’orrore della conquista del mondo, “del voler far di tutto il globo l’Europa” non è una rivelazione di oggi. Lo sapeva Colombo. Lo sapeva Las Casas, lo sapeva Conrad e forse anche Stoker. Lo sapevano, a patto di non chiedere di trascendere i limiti del tempo.

I viaggi e i loro racconti ci dicono assai di più di quanto ci dicano le vulgate dell’accademismo battesimale. Che ne è del “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”? Che ne è di quell’ “homme libre toujours tu chériras la mer”? Al mondo c’erano coloro che mettevano soldi per farne altri e quelli che invece ci mettevano tanto la faccia quanto il culo. Se però la terra è tonda e finita, tutto prima o poi ha una fine.

“E se l’esplorazione del mondo significasse la fine del mondo”? Se lo chiedeva Emmanuel Rimbert, che letterariamente ha percorso il cammino di un altro di quelli che ci hanno messo faccia e culo. Willem Barents. Tutto sta a capire che cosa si intenda per “fine”. Tanto per capirci, nel 1862 Camille Flammarion pubblica La pluralité des mondes habités. Tre anni dopo Jules Verne anticipa le nuove frontiere. De la Terre à la Lune. H.G. Wells è invece un po’ più giovane. Lui nasceva quando il mondo era sull’orlo della sua “fine”. 1895. La Macchina del Tempo. Proprio alla fine della Terra Incognita, alla vigilia di quella “croce di novecento” nasce in Europa il genere letterario della fantascienza. Secondo Fredric Jameson bisogna considerare questo evento come il sintomo di un cambiamento nel nostro rapporto al tempo storico. Un po’ come Lukacs aveva interpretato la nascita del romanzo storico cento anni prima. Un nuovo rapporto al tempo storico. Il passato da un lato… il futuro dall’altro. Ma che ne è dello spazio? Il mondo è finito. E finisce in un’assai singolare sincronia. Finisce proprio quando il genere che più di ogni altro ha marcato il XX secolo comincia a prendere forma. Che il tempo abbia sostituto lo spazio? Possibile. La conquista dell’universo. La colonia. La nave spaziale. Il cielo stellato come un mare senza fine. Semantiche simili. Ma c’è dell’altro. C’è il futuro, e l’idea di volerlo conquistare come se fosse una nuova Terra Incognita. Che sia un caso? Che sia un riflesso di quell’homo suae fortunae faber? Che sia la volontà di Dio? Il viaggio, tanto reale che simbolico, rappresenta la progressione verso una nuova coscienza, verso la consapevolezza di una nuova ontologia. Ma il viaggio, inteso come esplorazione dell’ignoto, conduce inevitabilmente a un ateismo radicale e senza appello. Del resto quel futuro che tanto si bramava sarebbe piombato con tutto il suo orrore di lì a poco.

Mi chiedo allora se sia un caso che, nel momento in cui viene sancita definitivamente la fine del mondo, nasca nello stesso tempo quella narrazione così tanto devota allo spirito del tempo. Mi chiedo se sia un caso che l’Utopia ceda il posto all’Ucronia… Che tempo e spazio si fondano insieme, l’uno metafora dell’altro e viceversa. È un frutto del caso o è la volontà di Dio? L’ateismo radicale rifiuta tali dicotomie. Le risposte sono quasi sempre da ricercare in quella disillusa dialettica che unisce la casualità alla causalità.

Giulio Andreotti, nella famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari, affermò di non credere al caso. Per lui esisteva soltanto la volontà di Dio. Tuttavia le cose non stanno così. Accettare la finitudine della Terra è la più grande professione di ateismo.



Letture:

Attilio Brilli, 2015, Il Grande Racconto dei Viaggi d’Esplorazione, di Conquista e di Avventura, Il Mulino.

Fredric Jameson, 2007 (ed. italiana), Il Desiderio Chiamato Utopia, Feltrinelli.

Emmanuel Rimbert, 2009, Le Chapeau de Barentsz, Magellan et Cie.








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