Deer
di Giuseppe Sorce

Sto guidando di notte su una strada di campagna, coperta per giunta da uno strato sottile di ghiaccio. A un certo punto vedo di fronte a me, lontano, due fonti di luce bianca che aumentano gradatamente di ampiezza. Prima viene la Firstness: due luci bianche. Poi, per iniziare a comparare una sequenza di stimoli distribuiti temporalmente (luce in tempo2 più grande che luce in tempo1) devo aver già dato inizio a una inferenza percettiva. A questo punto entrano in gioco quelli che Neisser chiama “schemata”, e che sarebbero forme di aspettativa e anticipazione, che orientano la selezione di elementi del campo stimolante (senza con questi escludere che il campo stimolante mi offra delle salienze, delle direzioni preferenziali). Non credo potrei attivare un sistema di aspettative se non possedessi già il TC “automobile”, più la sceneggiatura “automobile di notte”. Il fatto che vedo due luci bianche e non due luci rosse mi dice che l’automobile non mi sta precedendo ma mi viene incontro. Se fossi una lepre rimarrei abbagliato senza poter interpretare un fenomeno così singolare, e finirei sotto la macchina. (Eco, p. 251)


Texas, San Antonio, Novembre, notte. City limit. Querce. Strade.

Dietro, a destra, a sinistra, tutto intorno. Querce ovunque. Cavalcavia, ponti, le strade che si intersecano, si sovrappongono. Un amplesso di cemento e luci che sfrecciano, un amplesso di rami, foglie e rami infiniti nel buio.

Le strade che collegano il centro città al resto mi disorientano, tutte uguali ai miei occhi, le strade non hanno nomi. Le chiome delle querce mi tagliano la vista, oltre il fitto fogliame ai margini tutto è nascosto dal buio. Prendiamo varie uscite dall’autostrada verso i neighborhoods, nelle periferie. Quartieri messicani, quartieri bianchi, tutti hanno un’illuminazione tenue, color tuorlo, fioca. Giusto per dare l’idea delle forme, dei contorni delle cose vicine, il contrasto è minimo. Le strade tutte uguali sono basse, aderiscono al terreno, sono immerse fra le querce. City limit, dovunque, sembra di vederlo a ogni svolta. Verde, metallico, le lettere in bianco. Dove siamo allora? Forse le periferie sono altro dalla città. City limit, il limite di che? Ѐ tutto uguale. Limite e forme. La strada intagliata nel piano estendersi curvilineo fra gli alberi. Non un limite-cornice, puramente ottico, ma un limite-potenza, ottico-tattile. Potenza, non forme. Perché il cielo gigante è come se precipitasse, perennemente, penetra il cuore del bosco al di là. Così dal fitto e buio fogliame sento l’aria fresca invadermi ad ampie e calme boccate e il solo sentirla a interruzioni sulla pelle crea presenze e movimenti percepiti che l’occhio non può vedere.

Il cielo enorme schiaccia l’asfalto, gli alberi ai bordi del selciato lo sorreggono. La notte come una pressa schiaccia lo spazio, lo spazio della mia visuale imperfetta, e lo allarga. Si distende nell’infinito che non conosco. Soltanto il mare mi viene in mente, un mare muto e oscuro di foglie. Buio e alberi. Buio e strada. Il bordo del bosco è il bordo delle strada. I contorni, le forme, le curve, i lampioni, i tronchi delle querce. La potenza del mondo è nascosta dal buio, dalla foresta che avvolge tutto, nelle cortecce e nelle chiome profonde. La potenza della strada è nascosta dal telaio traslucido, robusto e gracchiante, nel motore spocchioso dell’auto. Almost home, certo. Riconosco solo l’insegna liquor, il bar che so essere “prima” di arrivare a casa. Parcheggiamo nel vialetto.

Look at the deer, dude. Ecco i cervi, mangiucchiano i giardini perfetti. Manie di controllo. Da dove sono sbucati? Non li ho visti per strada, non li ho sentiti arrivare. Appena ti scorgono puntano gli occhi verso di te. Immobili, lo sguardo fisso. Vuoti di paura, la mia. Sì. Non li ho mai visti realmente, non pensavo fossero cosi grandi. Un solo mio passo e sono statue con gli occhi spalancati, sono vivi, lo avverto, non sono in tv. Mi sento scavare nel riflesso dello sguardo fisso. Il bulbo oculare nero come la notte che mi circonda, eppure aggraziato e gentile nella tensione muscolare del corpo. Forse lo sto guardando allo stesso modo, forse lo sto innervosendo, che cazzo faccio? Che occhi! Che vuole da me? Che devo fare? Se mi allontano dall’auto e lui, il maschio suppongo, quello con le corna più grandi, decide di attaccarmi? Ha scosso la testa. Che sta pensando? Ma loro sono le prede in teoria, popolo furtivo della notte, perché sono bloccato allora? Un attimo ancora. Spariti, corsi via nell’ombra tra le foglie. Mi ritrovo davanti la porta di casa dal niente. What are you doin’? I don’t know, rispondo. Ero immobile, ho attraversato il vialetto non so come. Sono ancora immobile davanti l’uscio. Entriamo. Prendo una birra, vado nel portico sul retro, mi siedo.

Mi sento scomodo. Una specie di impulso agita i miei terminali nervosi, lo avverto, una specie di calore. Penso. Voglio tornare fuori, adesso ecco. Ѐ assurdo sono appena rientrato, che senso ha, a far che. Quel fruscio legnoso delle corna nell’aria silenziosa quando ha scosso la testa, me lo sento ancora addosso. Mi tremano le gambe, le sento calde ed energiche, e non è la birra ancora tappata.

La Wilderness è il sistema di aspettative che va a puttane. Il Tipo Cognitivo che va in crash con le vibrazioni del suolo quando lo zoccolo si solleva dall’erba turgida di umidità. Una massa mancante che ti fa sentire una preda del cosa non sai e cosa non puoi. L’urbe che ti irretisce e ti rigurgita ai margini.

City limit. Eppure ero ancora lì. O forse no.





Deleuze G., Cosa può un corpo?, Ombra Corte, 2010.
Eco U., Kant e l’ornitorinco, Milano, La nave di Teseo, 2016
Meschiari M., Geonarchia, Armillaria, 2017.







Nessun commento:

Posta un commento